Storia

La storia di Rosa Fedele

A cura di Lorenzo Grassi
© lorenzograssi.it

È stata definita la “vittima numero 336” delle Fosse Ardeatine, l’unica donna coinvolta nell’eccidio come tragico “danno collaterale” della ferocia nazista. Una vicenda narrata nel 1994 dallo scrittore Cesare De Simone nel libro “Roma città prigioniera” (estratto in appendice) – rimasto sino ad oggi l’unica fonte in merito – secondo il quale «una donna di 74 anni, che si chiamava Fedele Rasa» mentre stava raccogliendo «erba e cicoria» fu ferita a morte il 24 marzo 1944 da un soldato tedesco di guardia all’esterno delle Cave Ardeatine, dove si stava consumando la mattanza, che aprì il fuoco contro di lei perchè – forse complice la sordità – non si era fermata al perentorio “alt” che le era stato intimato. Portata in ospedale, l’anziana donna era morta il giorno successivo.

De Simone aveva scoperto questa vicenda “spulciando” proprio i registri del pronto soccorso dell’Ospedale del Littorio (oggi San Camillo), dove si precisava che il decesso era avvenuto per «scompenso cardiaco provocato da ferita d’arma da fuoco». Una nota aggiungeva che la donna – deceduta il 25 marzo 1944 dopo un giorno di degenza – «è rimasta colpita da un colpo di fucile sparato da soldato tedesco mentre faceva erba sul prato di via delle Sette Chiese prospiciente la via Ardeatina». Sin qui i documenti, mentre la narrazione dei dettagli appare romanzata e la stessa circostanza scatenante è ipotetica («È un po’ sorda, probabilmente»).

Dopo Cesare De Simone, però, nessun altro ha ritenuto che questo episodio fosse meritevole di approfondimento e verifica con la ricerca di riscontri. Così sino ai primi mesi del 2024 anche sul sito ufficiale del Mausoleo delle Fosse Ardeatine la vittima veniva identificata erroneamente come Fedele Rasa, nata nel 1870 a Gaeta e nel 1944 finita sfollata a Roma al Villaggio Breda.

Il Borgo di Gaeta in Provincia di Latina.

In realtà Rosa Fedele, questo il suo vero nome, era nata sì nel Borgo di Gaeta (all’epoca provincia di Terra di Lavoro) ma l’11 febbraio del 1862 e dunque al momento del decesso, il 25 marzo 1944, aveva 82 anni. Ora ne abbiamo finalmente certezza grazie all’Atto di nascita conservato nell’Archivio storico del Comune di Gaeta (LT), dal quale si evince che i suoi genitori erano due contadini: il 26enne Andrea Fedele e la 23enne Mariantonia Di Biase. Un atto firmato dal solo ufficiale dello Stato civile «avendo detto il dichiarante di non saper scrivere».

Il 13 agosto del 1881, a 19 anni, la “donna di casa” Rosa Fedele si era poi sposata con il giardiniere 28enne Vincenzo Albano, come certifica l’Atto di matrimonio conservato nell’Archivio del Comune di Gaeta. L’anno successivo, il 16 giugno 1882, la coppia aveva avuto la prima figlia Alessandranna, seguita due anni dopo il 28 agosto 1884 dalla secondogenita Giuseppa. Rosa Fedele era poi rimasta vedova il 10 febbraio 1930 e prima della guerra abitava in via Indipendenza 461 a Gaeta.

L’età di Rosa Fedele al momento del decesso è sbagliata anche nell’archivio informatico dei Cimiteri Capitolini, dove la donna – che risulta «deceduta il 25 marzo 1944 con provenienza Ospedale Littorio» – viene descritta «di anni 85». Dallo stesso archivio si apprende però – dato inedito – che fu seppellita al Cimitero Flaminio (riquadro 9, fila 8, fossa 24) e che, allo scadere dei 10 anni, i suoi resti sono stati poi riversati all’Ossario comune.

Anche il certificato di morte conservato all’Anagrafe di Roma – e riportato nell’articolo “Uccisa alle Cave ardeatine mentre faceva cicoria” di Giorgio Guidoni (con la collaborazione di Giuliano Marotta) pubblicato sul n.64 della rivista “Cara Garbatella” a giugno 2024 – conferma che Rosa Fedele – “di razza ariana” – morì nella notte del 25 marzo 1944 alle ore 2 presso l’Ospedale Littorio.

Adesso l’obiettivo è quello di provare a rintracciare nella zona di Gaeta dei possibili discendenti, ai quali sia stata magari tramandata oralmente la storia di Rosa o che siano in possesso di una sua fotografia. La data più recente che è stata individuata sino ad ora è quella del matrimonio della figlia Giuseppa, avvenuto il 15 giugno 1909. Gli approfondimenti in tal senso sono ancora in corso.

La cancellata del Mausoleo delle Fosse Ardeatine.

Allo stesso tempo, si sta tentando di verificare i dettagli dello svolgimento del tragico episodio. Oltre alla fonte già ampiamente ricordata del libro di Cesare De Simone, se ne possono richiamare almeno altre tre.

La prima, più conosciuta e citata dallo stesso De Simone, è il racconto fatto da padre Libero Raganella nel suo libro “Senza sapere da che parte stanno” (estratto in appendice), dove si evince che intorno alle Cave Ardeatine – teatro di una «azione di guerra» – era stata predisposta dalle SS naziste una ferrea cinturazione militare e il solo tentare di violarla significava andare incontro a morte certa.

La seconda, che tratteggia ulteriormente la situazione nella zona tra via Ardeatina e via delle Sette Chiese durante la giornata del 24 marzo 1944, sono i diari e le testimonianze dei salesiani delle vicine Catacombe di San Callisto che poi saranno i primi ad avventurarsi nelle Cave Ardeatine scoprendo i corpi dei martiri. Questa memorialistica è stata analizzata da Francesco Motto nel suo saggio “Gli sfollati e i rifugiati nelle Catacombe di San Callisto durante l’occupazione nazifascista di Roma. I salesiani e la scoperta delle Fosse Ardeatine” pubblicato in “Ricerche storiche salesiane” nel 1994 (estratto in appendice). Emerge, tra l’altro, l’episodio di un giovane che rischiò a sua volta la vita per aver preso un fucile da un camion tedesco.

La terza testimonianza, infine, è quella autobiografica di Adelio Canali nel libro “La Terrazza sulla Garbatella” (estratto in appendice) dove ricorda che da piccolo rischiò di fare la stessa fine di Rosa Fedele e trovò scampo solo grazie alla provvidenziale copertura delle “fratte” e alla sua prestanza giovanile nella fuga. Canali scrive di essere stato fortunato anche «perché il soldato non mi intimò l’alt come, invece, fu fatto nei confronti di una donna, che raccoglieva cicoria sull’altro lato dell’Ardeatina. La poveretta era sorda, al primo alt avanzò ancora verso il militare e quello, fedele alla consegna, le sparò dopo la seconda intimazione. La donna morì in ospedale, dopo una breve agonia». Per l’episodio della donna uccisa Canali riporta (come richiamato in nota del suo libro) la versione narrata nel 1994 da De Simone.

Di recente Giorgio Guidoni e Giuliano Marotta sulla rivista “Cara Garbatella” hanno approfondito la vicenda di Rosa Fedele. A loro Adelio Canali ha rilasciato la seguente dichiarazione: «Il pomeriggio del 24 marzo 1944, mentre mi trovavo con la mia famiglia in zona via delle Sette Chiese, mi ero allontanato per giocare avvicinandomi alle Cave ardeatine. Sulla sommità della collinetta vidi una signora anziana, io ero nascosto dietro le fratte, scorsi poco lontano un milite tedesco armato. Impaurito da quella vista mi diedi a gambe levate per tornare dai miei. Mentre correvo udii distintamente un colpo di arma da fuoco. Qualche giorno dopo seppi che quella signora era poi deceduta all’ospedale».

Ringraziamenti

Per il prezioso aiuto nella ricerca dei documenti ringrazio la Dott.ssa Maria Stamegna, Responsabile del Servizio Bibliotecario del Comune di Gaeta (LT), e la Dott.ssa Patrizia Cinquanta, Segretario Generale del Comune di Gaeta (LT). Ringrazio molto anche Giorgio Guidoni e Giuliano Marotta che mi hanno aggiornato sui risultati della loro ricerca e sulla testimonianza di Adelio Canali.

APPENDICE

1) Racconto di Cesare De Simone

Brano tratto dal libro “Roma città prigioniera. I 271 giorni dell’occupazione nazista (8 settembre ’43-4 giugno ’44)”, Mursia, 1994

C’è qualcosa che è ancora ignorato, nel grande eccidio delle Cave Ardeatine. In realtà, gli uccisi dai tedeschi furono 336, e quel trecentotrentaseiesimo è una donna di 74 anni, si chiamava Fedele Rasa. È una scoperta fatta spulciando i registri del pronto soccorso dell’ospedale del Littorio (oggi San Camillo). Nel registro degli “ingressi donne” dell’anno 1944, al numero 2976 si legge:

24 marzo, ore 17, Fedele Rasa, 74, fu Andrea, nata a Gaeta (Littoria), abitante al Campo sfollati Villaggio Breda, scompenso cardiaco provocato da ferita d’arma da fuoco [nota aggiunta] deceduta il 25 marzo ore 2, giorni di degenza 1. La donna è rimasta colpita da un colpo di fucile sparato da soldato tedesco mentre faceva erba sul prato di via delle Sette Chiese prospiciente la via Ardeatina“.

Ecco la ricostruzione di quell’episodio sconosciuto. La donna, come faceva di solito, s’era recata sui campi della zona per cogliere erba e cicoria, era il modo di sfamarsi di molti romani. Quel pomeriggio i tedeschi avevano però circondato con un fitto cordone di soldati l’intera zona della cava, per impedire l’accesso di passanti, o curiosi; anche il traffico sull’Ardeatina era stato bloccato, lo sappiamo dal racconto di padre Libero Raganella.

L’anziana donna, sul prato proprio di fronte alla cava, sta raccogliendo erba, la mette man mano in un cestino che tiene accanto, e avanza lentamente, piegata in due nel lavoro, proprio in direzione del punto dove sta avvenendo il massacro. È un po’ sorda, probabilmente, e non sente il soldato tedesco che le urla da lontano di fermarsi, di tornare indietro. Alza lo sguardo, però, e vede il soldato che le fa cenni con un braccio, e lo vede gridare. Fedele Rasa non capisce, allora fa d’istinto la cosa che le pare la più logica: lascia a terra il cestino con la verdura raccolta e si avvia verso il soldato per farsi dire cosa vuole. Ma quel soldato è una SS, ed ha un ordine preciso. La donna non si è fermata alle due prime ingiunzioni e ora viene avanti, disobbedendo: così lui alza il fucile, mira, spara.

Fedele Rasa si accascia sull’erba, è colpita a una spalla e perde molto sangue. Sono altri due soldati tedeschi, due autisti dei camion della Wehrmacht, che dopo una mezz’ora la tirano su e la portano all’ospedale più vicino, il San Camillo. Ma ormai il cuore di Fedele Rasa non regge per molto all’emorragia. Lei, dunque, è la trecentotrentaseiesima vittima italiana, colpita però sul prato, sotto il cielo pomeridiano percorso da banchi di nuvole basse e bianche; gli altri 335 morivano nel buio delle fosse arenarie, alla fioca luce delle torce, in fondo alle gallerie invase dal tanfo di cordite e sangue, di escrementi, di morte.

2) Memorie e testimonianze dei salesiani delle Catacombe di San Callisto

Brani tratti dal saggio di Francesco Motto “Gli sfollati e i rifugiati nelle Catacombe di San Callisto durante l’occupazione nazifascista di Roma. I salesiani e la scoperta delle Fosse Ardeatine” in “Ricerche storiche salesiane”, 1994

I salesiani, a pochi km di distanza, stavano per vivere momenti “romani” fra i più drammatici della Seconda guerra mondiale. Più di uno di loro, e anche altri “ospiti” alle Catacombe, dall’alto del terrapieno poterono osservare sia i soldati bloccare le strade che davano accesso al luogo sia i camion del mercato arrivare carichi di uomini anziché, come sempre, della verdura.

Il 13 giugno 1948 il Corriere della Sera faceva la seguente sintesi dell’interrogatorio di don Giorgi, al processo Kappler, avvenuto il giorno precedente: «Il religioso ricorda che il 24 marzo 1944 i tedeschi bloccarono le strade della zona e nessuno potè vedere nulla della strage: dalle finestre dell’Istituto fu possibile scorgere tuttavia un intenso movimento di autocarri – erano quelli che portavano le vittime al massacro – nei pressi delle gallerie Ardeatine; ad un certo punto si udirono gli scoppi delle mine che facevano saltare gli imbocchi delle cave trasformandole in una gigantesca tomba».

La guida fiamminga delle Catacombe, il salesiano laico Van der Wijist (1883-1957), assistette di persona a quei preparativi e venne con minacce allontanato dal suo posto di osservazione; la guida ungherese invece, il salesiano laico Luigi Szenik (1883-1972), non solo poté vedere i carri con i condannati a morte, ma riuscì anche a salvare un giovane che imprudentemente aveva preso in mano un fucile dei tedeschi.

«Un nostro salesiano tedesco (invero era ungherese l’uno e fiammingo l’altro), dal terreno sopraelevato prospiciente alle vie accennate si affacciò per vedere ciò che accadesse. Fu invitato decisamente da un militare di allontanarsi».

“La strage del 24 marzo nel racconto di chi vide e udì”, relazione del salesiano don Michele Valentini pubblicata lunedì 5 giugno 1944 su “Il Risorgimento liberale” e riportata in appendice al saggio di Francesco Motto:

Venerdì 24 marzo 1944

Verso le ore 15/16, si nota un movimento insolito di soldati tedeschi; all’incrocio di via Ardeatina con via delle Sette Chiese viene interdetto il passaggio ai civili. Solo verso le 17,30 si lascia passare un carro agricolo. Un giovane della vicina osteria prende un fucile da un camion. Preso, viene messo al muro con minaccia di immediata fucilazione. È salvato da un religioso laico, il salesiano sig. Szenik, guida tedesca (in realtà ungherese) presso le Catacombe di San Callisto.

Si nota un insolito traffico alle cave dell’arenaria ardeatina. Giungono cinque macchine con ufficiali e sottoufficiali tedeschi; quattro camion, di cui l’ultimo è un furgone cellulare; qualche altro porta le insegne della Croce rossa. Dopo il copri- fuoco il movimento delle macchine è in aumento e concitato. Verso le 20 si ode una prima detonazione di mine; una seconda viene udita verso le 21.

Dalle catacombe di San Callisto, spinto dalla curiosità, si affaccia verso le cave il sig. Wander Weist. È respinto da un soldato tedesco con fucile spianato. Lo stesso capita all’ing. Valle, direttore del Centro Cinematografico Cattolico.

3) Racconto di padre Libero Raganella

Brano tratto dal libro “Senza sapere da che parte stanno. Ricordi dell’infanzia e diario di Roma in guerra (1943-44)”, Bulzoni, 2003

Le raffiche di mitra ora si sentono a breve distanza, ad intervalli, unite a grida disperate e strazianti. L’SS mi è ormai di fronte e in un italiano quasi perfetto (capisco subito che è uno dell’Alto Adige che ha optato per la grande Germania) mi fa notare che è proibito proseguire per quella strada o sostare, essendovi in corso un’azione di guerra.

Mentre parla, più che ascoltare lui ascolto le mitragliatrici che a brevi intervalli scattano in canto rabbioso, e tra quel fragore infernale più distinte e chiare le urla, i lamenti ed ogni verso umano, ma reso disumano dal terrore.

Come in sogno afferro la tragedia. «Là stanno morendo. Io sono sacerdote, vorrei assisterli, benedirli» riesco a dire con un filo di voce. «Non è possibile, nessuno può passare. E se pure io la facessi passare – dice quello, voltandosi e accennando agli altri soldati – lei non tornerebbe indietro e noi faremmo la stessa fine di quelli là dentro. Vada via. Vada via subito prima che sia troppo tardi».

NOTA:
Padre Libero Raganella era stato contattato da uomini della Resistenza e invitato a recarsi verso Porta San Sebastiano, poi sull’Ardeatina «dove stava accadendo qualcosa di strano». Era nato il 7 maggio 1914 nel popolare quartiere di San Lorenzo, dove ha trascorso gran parte della sua vita come sacerdote ed educatore presso la Parrocchia dell’Immacolata e San Giovanni Berchmans e l’annessa Opera Pio X, dei padri Giuseppini del Murialdo.

4) Racconto di Adelio Canali

Brano tratto dal libro “La Terrazza sulla Garbatella”, EdUP, 2008

La mattina del 24 marzo 1944 avevamo raggiunto, come di consueto, la nostra meta. La famiglia della conoscente di mia madre era venuta all’incontro giornaliero assieme ad alcuni parenti, fuggiti dalla zona di Anzio, dove il 22 gennaio erano sbarcati gli alleati, che, però, non si decidevano mai a rompere il fronte.

Insieme a noi giocava anche Adriano, un nano che abitava nei paraggi. All’ora di pranzo ci fece un’improvvisata nonna con un recipiente di riso e patate; il riso lo aveva recuperato fra le macerie di un deposito di alimentari in via Pellegrino Matteucci, vicino al cinema Tirreno. Il risotto ai calcinacci è un piatto che non consiglio: io l’ho assaggiato, provoca molta arsura! Quel pomeriggio presi un recipiente e scesi lungo il viottolo per recarmi alla sorgente.

Rifornitomi d’acqua, mi accingevo a tornare dai miei, quando sul prato vidi in lontananza un soldato tedesco dirigersi a passi lenti verso di me, impugnando il fucile. Ero seminascosto dalle fratte, più alte della mia persona, ma quello doveva aver intravisto qualcosa muoversi perché, prima, si fermò di scatto, poi, allungando il collo, cominciò ad accelerare il passo.

Fui fortunato per due motivi: innanzitutto, perché prontamente mi allontanai correndo a perdifiato, secondo, perché il soldato non mi intimò l’alt come, invece, fu fatto nei confronti di una donna, che raccoglieva cicoria sull’altro lato dell’Ardeatina. La poveretta era sorda, al primo alt avanzò ancora verso il militare e quello, fedele alla consegna, le sparò dopo la seconda intimazione. La donna morì in ospedale, dopo una breve agonia (nota: da “Roma città prigioniera” di Cesare De Simone, Milano, Mursia, 1994).

In breve, cosa incredibile, mentre noi stavamo sul prato davanti al casale, chi discorrendo, chi giocando, all’inizio della via Ardeatina, presso le cave situate sotto il piano di campagna, i tedeschi avevano formato un posto di blocco oltre il quale si stava consumando l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Senza sapere nulla di quanto stesse accadendo, sempre quel pomeriggio tornammo a casa per via del coprifuoco. Avremmo ripreso la via del casale solo dopo alcuni giorni perché l’amica di mamma, parente dei guardiani delle catacombe, era andata fuori Roma nel tentativo di rimediare viveri nei paesi della provincia.

Tornato nuovamente sul prato del solito incontro, avvertii ancora di più una strana sensazione, già incombente nel mio animo, soprattutto per i segni d’inquietudine che scorgevo sul viso e nei comportamenti di mio padre, evidentemente già in possesso di qualche notizia: in giro circolava poca gente; la notizia dell’eccidio non era ancora trapelata.

A metà mattina, mentre giocavo con altri ragazzini vicino alla fratta prossima alla trattoria, sentii un rumore di automezzi e tra i rovi feci in tempo a vedere due camion che trasportavano giovani, sorvegliati da soldati tedeschi. Udii anche un grido: “Mamma mia!”. Corsi subito dalle donne a riferire il particolare e la più anziana pensò di tranquillizzarmi, dicendo che si trattava sicuramente di devoti che si recavano al Divino Amore con la caratteristica invocazione “Viva Maria!” tra una preghiera e l’altra.

Verso le 16 di quel pomeriggio un improvviso boato ci fece sobbalzare. Ormai eravamo abituati ai bombardamenti aerei, ma guardando in alto non si vedevano velivoli, tanto meno se ne udiva il consueto, sinistro rombo. Neanche il tempo di riprenderci che un secondo e terzo boato, molto più forti, ci fecero voltare di scatto. Dietro il casolare un’alta colonna di terra s’era levata verso il cielo per poi calare lentamente. Radunammo velocemente le nostre cose e scappammo a casa.

Nei giorni successivi cominciarono a trapelare le prime notizie dell’eccidio e sui tentativi dei tedeschi di chiudere l’ingresso delle cave, prima, col lavoro di giovani rastrellati, poi, col brillamento di tre cariche di tritolo. Dopo questo avvenimento, si decise di rimanere a casa in balia del destino.