Storie

Quel cippo santissimo

A cura di Lorenzo Grassi
© lorenzograssi.it

Ha atteso paziente per centinaia di anni, ben mimetizzato nell’intrico verde e impenetrabile di piante e rovi grazie anche ad una patina di muschio che con il passare del tempo lo aveva parzialmente ricoperto. Del tutto ignorato e sconosciuto, nonostante si trovi a poche decine di metri da uno dei viali più frequentati del parco di Villa Ada. Solo un caso fortuito ora lo ha fatto tornare alla luce e così è spuntata fuori questa inedita vestigia – un cippo di confine in travertino – che potrebbe costituire una preziosa testimonianza tangibile (l’unica sino ad oggi documentata e straordinariamente ancora in loco) dei lunghi secoli “oscuri” tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’Età moderna (dal XIV al XVII secolo). Un’epoca nella quale le vallate e i colli dei terreni lungo la via Salaria, sino alle rive del fiume Aniene (il “Teverone”), erano fertili campi destinati alle coltivazioni.

Ad inciampare letteralmente sul cippo, durante una passeggiata nei boschi, sono stati due cultori e appassionati del parco: Andrea Zinno (fondatore e curatore della pagina Facebook “Villa Ada Savoia”) e Lorenzo Grassi (Osservatorio Sherwood). Abbassando lo sguardo hanno notato un blocco squadrato, infisso un po’ storto nel terreno, alto una sessantina di centimetri e con la sommità tondeggiante. Un’osservazione più attenta ha rivelato – con loro grande sorpresa – la presenza su un lato di un’effigie in bassorilievo e sull’altro di due grandi lettere maiuscole “S.S”. Segnalato il ritrovamento alle autorità competenti, mossi dalla curiosità Zinno e Grassi hanno fatto qualche ricerca e si è svelata una storia avvincente.

 Uno stemma della Confraternita del Santissimo Salvatore ad Sancta Sanctorum.

L’effigie, che faceva pensare ad una sorta di acquasantiera, rappresenta in realtà un candelabro stilizzato. E i candelabri sono uno dei simboli che accompagnano la figura principale dello stemma della Confraternita del Santissimo Salvatore ad Sancta Sanctorum (da cui anche le lettere SS sul retro del cippo), formata a partire dal XIV secolo dal Cardinale Giovanni Colonna con il compito di accogliere i pellegrini, assistere gli infermi e custodire il Sancta Sanctorum, la cappella della Scala Santa in Laterano dove è conservata una antichissima icona del viso di Cristo (nota come Sacra Immagine Acheropita – non dipinta da mano d’uomo – del Santissimo Salvatore). È considerata l’immagine più venerata di Roma.

La Sacra Immagine Acheropita alla Scala Santa.

L’originaria “Compagnia dei Raccomandati del Salvatore” era stata anticipata nel 1200 dalla fondazione dell’Ospedale del Santo Salvatore sulla strada che nel Medioevo era chiamata via Maior o Sacra, oggi via di San Giovanni in Laterano. Compagnia ed ospedale furono poi unificati sotto la guida del Cardinale Pietro Colonna. La gestione dell’Ospedale del Santissimo Salvatore – attuale Azienda Ospedaliera Complesso San Giovanni-Addolorata – si è protratta sino al 1815. La storia della struttura sanitaria e della sua iconografia è stata approfondita da Philine Helas della Bibliotheca Hertziana-Istituto Max Planck per la storia dell’arte e da Patrizia Tosini dell’Università Roma Tre nel libro “L’Ospedale del SS. Salvatore ad Sancta Sanctorum tra Medioevo ed età moderna”.

L’immagine della Confraternita sui fornici del Colosseo.

Lo stemma della Confraternita compare anche in due esemplari scolpiti sul Colosseo: sul fornice LXIII e su quello orientale. Dopo la metà del Trecento, infatti, la Confraternita divise la proprietà dell’Anfiteatro Flavio con la Camera Apostolica e il Senato di Roma. Fu costruita la chiesa di San Giacomo e una parte della Fortezza Frangipane (con la chiusura delle arcate) fu trasformata in ospedale femminile. È da ricordare che la Confraternita del Santissimo Salvatore ad Sancta Sanctorum disponeva anche di una fonte termale nella Valle della Caffarella, l’Acqua Santa nota con il nome di ninfa Egeria, che era divenuta famosa in tutta Roma dopo due straordinarie guarigioni avvenute nel 1567 e nel 1617. Secondo quanto scrive l’abate Tommaso della Valle in un trattato del 1688, la Confraternita aveva collocato il proprio segno di riconoscimento – con mezzobusto di Cristo in “marmo grossolano” – sia all’ingresso della vigna che sull’edificio dove si faceva il bagno.

La raffigurazione del candelabro stilisticamente più simile a quella del cippo rinvenuto a Villa Ada è quella presente su una piccola elemosiniera incastonata nella facciata dell’ospedale San Giovanni all’angolo tra la piazza e la via di San Giovanni in Laterano. Pochi metri più in alto, sullo stesso edificio, c’è un’edicola con una seconda effigie in bassorilievo del Salvatore affiancata sempre da due candelabri. In una lastra poco sotto c’è un’iscrizione voluta dai “custodi” della Confraternita e riferita al nuovo edificio realizzato sotto il regno di Papa Urbano VIII nel 1636. Si può dunque ipotizzare che l’elemosiniera risalga al periodo compreso tra il 1625 (anno del Giubileo di Urbano VIII) e il 1636 (anno riportato nell’epigrafe dedicatoria sulla stessa facciata). Una datazione che è stata suggerita dalla Dr.ssa Cinzia Martini della UOC “Conservazione valorizzazione patrimonio immobiliare-storico” Azienda Ospedaliera San Giovanni-Addolorata. A quel periodo, dunque, potrebbe risalire il cippo di Villa Ada.

Il confronto tra il candeliere dell’elemosiniera e quello del cippo (a destra).

Ma non è escluso che sia antecedente. Grazie a donazioni e lasciti, infatti, la Confraternita aveva accumulato un immenso patrimonio ed era proprietaria di estese tenute, spesso affidate a terzi con il metodo dell’enfiteusi (dietro pagamento di un canone in danaro o in natura). Tra queste tenute c’era anche quella “di Ponte Salara”, insieme al Casale, al Quarto, ai Prati e alle Vigne tutte con la stessa denominazione. Questi siti appaiono genericamente documentati sin dalla metà del Trecento nella Collezione di pergamene conservata dall’Archivio dello Stato di Roma (Fondo Ospedale del SS. Salvatore ad Sancta Sanctorum) dove sono citate compravendite nei toponimi Canicatore e Lo Saccoccio, con il coinvolgimento delle monache di San Silvestro in Capite proprietarie di terreni limitrofi. A tal proposito si riferisce ad esempio dell’apposizione di “termini di marmo” sui confini “alcuni segnati con l’Immagine del SS. Salvatore e altri con lettere S. Silvester de Capite”. Ancora nel Cinquecento le pergamene testimoniano “affitti dell’erbe” e divisioni di casali e casaletti. Al 1663 risale una lite per una Vigna nella tenuta di Ponte Salaro, al 1680 la specifica delle “tasse delle strade per la tenuta di Ponte Salara e per le vigne”; infine al 1707 una lite per un affittuario che “aveva tagliato il fieno oltre li soliti confini” nei prati contigui alla tenuta, con sentenza di “apposizione delli confini”.

Cartografia del “Casale di Ponte Salaro” nel Catasto Alessandrino.

La zona dove Zinno e Grassi hanno rinvenuto il cippo a Villa Ada è raffigurata in una pianta acquarellata conservata all’Archivio di Stato di Roma (Serie Catasto Alessandrino) con indicazione “Casale di Ponte Salaro” e proprietà attribuita all’Arciconfraternita del Santissimo Salvatore. Viene citata la presenza di 13 “colonnelle” poste sul confine e una nota specifica che la cartografia è una copia da un originale contenuto nel “Libro delli Casali” del 1599 di Ascanio Antonietti. Anche nel Catasto Annonario delle Tenute dell’Agro Romano del 1783 viene certificata la “pertinenza” della tenuta “di Ponte Salaro” in capo “al Ven. Ospedale del Santissimo Salvatore ad Sancta Sanctorum confinante colle Vigne, Fiume Tevere, Teverone e Prati detti d’Acquacetosa”. Si elencano quattro aree da alternare nei seminativi e una – il Prato del Fontanile – da dedicare al pascolo dei “bovi aratori”.

I confini nella zona del cippo nella cartografia di Filippo Troiani del 1839.

Nel Catasto Gregoriano del 1835 (Foglio 153 dell’Agro) il “Quarto di Ponte Salaro” (Particelle da 1 a 7, indicate come vocabolo “Tenuta detta Prato della Signora”) viene annotato come un’eredità amministrata da Luigi Fornesi, enfiteuta perpetuo dell’Archiospedale di Santissimo Salvatore. Oltre i confini invece, dove ancora oggi scorre uno dei ruscelli di Villa Ada, si passa nelle Vigne e nei Canneti della Valle della Noce, in capo ad altri proprietari tra i quali spicca il Principe Paluzzo Altieri (al quale è stato attribuito un altro cippo presente nei boschi del parco). I confini, tra il fondovalle e le pendici di quello che solo in seguito sarà chiamato Colle del Roccolo, appaiono curiosamente e forzatamente spezzettati e poco lineari. Allo stesso modo li riporta anche Filippo Troiani nella sua Carta topografica di Roma e dintorni del 1839, annotandoli come “Tenuta di Ponte Salario”.

Le ultime citazioni riferite alla tenuta di Ponte Salario risalgono ai primi del Novecento (mentre dal 1872 un’altra ampia parte di Villa Ada era stata acquistata dalla famiglia Savoia, in particolare dal Re Vittorio Emanuele II, e poi rivenduta nel 1878). A partire dal 1907 l’ingegnere Oscar Sinigaglia procede ad una vasta bonifica – anche delle tenute oltre Aniene – e in quella del “Quarto di Ponte Salario” vengono realizzate strade poderali, scoli e fabbricati agricoli (stalle, scuderie, magazzini e fienili) con un completo riordino del sistema delle colture. Realizzazioni che faranno vincere a Sinigaglia un premio statale di merito pari a tremila lire. Tornando al cippo scoperto da Zinno e Grassi, come detto il candelabro stilizzato appare simile nello stile a quello dell’elemosiniera di San Giovanni in Laterano che viene fatta risalire al 1625-1636; ma abbiamo anche visto che alcuni atti di gestione della tenuta sono documentati nelle pergamene sin dalla seconda metà del 1300. Resta dunque abbastanza ampia (dal XIV al XVII secolo) la finestra temporale nella quale il cippo di confine in travertino può essere stato collocato sul terreno. Sembra essere invece abbastanza certo – a meno che l’oggetto non sia stato spostato nel tempo dalla sua collocazione originaria – il fatto che fu posto in un luogo dove era necessario fissare con precisione una netta piega, ovvero un punto divisorio complicato che avrebbe potuto far scaturire dannose dispute e controversie.

Le lettere S.S. sul cippo, iniziali di Santissimo Salvatore.

In conclusione resta una riflessione sulla stretta convivenza tra sacro e profano, testimoniata da questa suggestiva vestigia: con un’immagine dal forte richiamo religioso – quella del candelabro associato al Santissimo Salvatore – usata come sorta di marchio per segnare e riaffermare una proprietà patrimoniale oltremodo terrena. Mentre il parco di Villa Ada si conferma ancora una volta come scrigno di tesori e segreti ancora da scoprire, varcando quella che lo scrittore Niccolò Ammaniti con azzeccata intuizione ha definito la “soglia tra realtà e fantasia, dove tutto è possibile”, scegliendo Villa Ada come onirica ambientazione del suo romanzo “Che la festa cominci” edito nel 2015 da Einaudi.